Antologia critica
di Gabriella Maleti
A scorgerla dappresso, questa "plaquette", - i suoi silenzi squarciati e le
livide campiture in chiaroscuro, i miti rivisitati e le utopie trasognanti,
i simboli densi e i segni iperscrutati, ecc. - pare possa iscriversi già
tutta nell'ambito di una scrittura che vuole essere (anche con lancinante
violenza) ricognizione generosa e attenta del reale; magari spingendone
1'occhio (o l'obiettivo, secondo 1'equazione poesia - osservatorio
privilegiato) "oltre", in profondità, col coraggio di introdursi attraverso
i terreni minati di zone umbratili e misteriose, inquietanti e drammatiche,
alla ricerca di fratture illuminanti. (…)
Poesia anomala, questa, complicata da una polifonia di voci autonomamente
(il lettore avveduto se ne sarà certo accorto, alla fine) riproposte, con
toni a volte benignamente ingenui, ma più spesso sorprendenti: Montale, per
primo (del "Wasteland" s'è detto; eppoi, brevi clic: "Larga si svolge nel
sonoro/ all'upupa monotona..."; e ancora, stupefatte epifanie: "Un uccello /
o l'ombra / volò sulla terra"; e infine: quel tono timbrico assai poco
respirabile, non dico fino agli eccessi "petrosi" degli "Ossi", ma
sicuramente duro di respiro, ostile e contratto); Baudelaire {"Diventando
cattedrale / d'acqua e pietre..."}; e infine, Pasolini, il primissimo della
"Suite furlana", col suo "pathos", la sua dolce melanconia: "dal tempo del
mio ventre / tremante come carne senza fuga -."; e ancora: "nel tuo terreno
povero / nel tuo povero regno senza arance e storia", ecc.
Ma ciò che conta credo sia che questa poesia si rivela in fondo come
fortemente politica (scopertamente anche - se per politica si intenda un
modo di esibire senza reticenze, con dignità, il proprio modo di sentire e
di affrontare criticamente l'esistenza); poesia alla cui lettura, quasi
prendendoci per mano, sottovoce, Gabriella Maleti ci invita.
Roberto Baruffini
(prefazione in Famiglia contadina, Forum, Forlì, 1978)
* * *
"Edipo aveva solo buone intenzioni" dice Deleuze, infatti egli non sa, ma se
avesse saputo e fosse stato tradito? È ciò che questa poesia non dice perché
quello che le appartiene non è la storia ma l'evento, o meglio ciò che
ancora si mostra, ciò che resiste dell'evento.
Apparizioni, aggressioni, assassini e vittime occupano l'eterno presente,
luogo che ha rotto i ponti col passato e col futuro, e proprio per questo
sono in grado di proiettare su di esso la loro ombra raddoppiata,
ingigantita, la minaccia del loro puro esistere. È così che la ferita
profonda, privata, diventa una bocca che si apre sulla superficie per
parlare. Bocca che restituisce l'offesa rovesciando l'ordine naturale in cui
la superficie si organizza, sotto un cielo vuoto di senso e ridotto esso
stesso a minacciosa materia, niente più che un enorme sfondo teatrale sul
quale risaltano con evidenza irrimediabile tragedie senza misura. Sono le
stesse tragedie che si incontrano negli incubi dove il desiderio deluso e
ingannato torna come desiderio perverso, e il gesto d'amore inutilmente
richiesto cambia in desiderio negativo.
La campagna è percorsa dal nero letto di ferro dei genitori, da uccelli
abbattuti, conigli agonizzanti, piccoli pipistrelli, tempeste che battono
sui raccolti e sui colori. Ma la ferita d'origine esiste veramente solo nel
momento in cui può parlare, in cui il desiderio, la sessualità, l'istinto di
morte si immettono in una dimensione di fuga, una continua metamorfosi, la
severa armonia delle metafore.
Brano in IV di copertina di Madre padre
(Società di poesia, Milano, 1981)
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Prima la citazione di Luzi ed è la poesia come quel che sta prima o dopo la
parola, la poesia come forza che nutre, come segreto che sostiene, muove,
motiva.
Poi l'inizio incerto, vago ("Non so cosa vi sia ora") che avvia l'emozione
l'evento. E lo sguardo s'accende, si vela, coglie insieme il prossimo e il
lontano, il presente e il passato.
Così la visione si svolge e si consuma fin dentro le stanze oscure della
memoria, fin dentro il mare aperto del desiderio. Ma chi appare? che accade?
Il posto è quello per cui sono passati molti tempi e storie; vi si è
consumato un progetto remoto di bellezza: restano segni, vecchi muri, rovine
e l'erba le copre, le invade. Fra i monumenti gli aerei, macchine
abbandonate, in rovina, ormai divenuti - per grazia dei decenni, ma
anzitutto per l'allegria tenera e tenace di chi si pronuncia e li nomina -
strumenti d'infiniti viaggi, meravigliosi perché mai compiuti.
E la prepotenza dell'uomo e l'orrore della guerra vengono scancellati dal
gioco; e il gesto e il richiamo hanno la leggerezza del sogno che confonde
le veglie e le esalta e le estenua.
Se il battello rimbaudiano va per abissi d'acque e di tempi avendo come
unica meta l'andare, se il suo viaggio sta tutto nell'ebbrezza e
nell'abbandono al possibile e all'impossibile, nel poemetto di Gabriella
Maleti - intessuto di versi sospesi, di pause ansimanti, di accennate
domande, di risposte mai definite - gli aerei volano fermi, come sparvieri
addormentati.
Elio Pecora
(Prefazione da La flotta aerea, Quaderni di Barbablù, Siena, 1986)
* * *
Cara Gabriella Maleti,
ho letto le sue poesie, vi sono anche tornato sopra, passim, più di una
volta. Mi catturavano assai: da quale aspetto? Per quale motivo? Lampi di
verità umana svelata inopinatamente, quasi proditoriamente, traversano il
testo in parecchie direzioni, è vero. Ma non saprei separare nessuna
illuminazione dalla vivace euforica grazia che ha in lei la pulsione della
scrittura. Nella scrittura infatti si risolve tutto il suo fervore, il suo
dolore: non per un alibi trovato, non per stregoneria liberatoria, ma perché
l'assurdo e l'incompreso si umanizzano nell'essere detti o inseguiti dalla
dizione felice se non altro di questa vittoria. Lei lascia arbitra del
discorso la febbrilità ritmica, verbale, da lei scatenata: ma essa è già
così elettivamente permeata di senso che sa come svilupparsi e dove andare
per raggiungere un più cosciente attimo di dominio sul caso che non sarà,
appunto, più di un attimo, per nulla definitivo dunque, ma che la porta
inevitabilmente un poco più in là, più dentro. Un aumento vitale della
lingua mi pare il suo atout, il suo speciale talento. E può immaginare
quanto lo senta congeniale alle mie stesse ambizioni. Mi ha dato dunque
piacere leggerla, un autentico piacere.
Stia bene e continui a lavorare felicemente come in questi anni 80...
Suo
Mario Luzi
(Lettera-prefazione a Memoria, Gazebo, Firenze, 1988)
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Cara Gabriella Maleti, .
ho letto - era tempo - "Morta famiglia". L'impressione di fondo è assai
positiva. Cè una verità straziata e straziante Ci sono zone fantastiche di
una bellissima tenutarii
rapporto con gli animali, in campagna; gli insetti che, ripresi in primo
piano, diventano grandi grandi come accadeva al Doganiere Rousseau che da un
vaso di basilico faceva una foresta. È un libro carico di dolore. Alla fine
si deve convenire nella conclusione che la vita sarebbe una cosa tutta da
dimenticare.
La chiave stilistica è quella di una scrittura primitiva che certamente si
adatta al mondo che viene rappresentato, che al tempo stesso contribuisce ad
avvicinarlo e a straniarlo. Mi pare una chiave molto felice.
(…) A volte, proprio sul piano della scrittura, questo primitivismo può
sconfinare in una caduta formale: il passaggio è insensibile. Altre volte
questa scrittura poetica produce oscurità per eccesso di condensazione, ma
l'impressione di fondo, come ripeto, è molto positiva. La scrittura è forte,
allucinata e precisa. È un libro per farsi male: e che fa male a leggerlo.
Forse così deve essere la letteratura vera, che non sia solo letteratura.
Luigi Baldacci
Firenze, 15.4.85
(Lettera-prefazione a Morta Famiglia, Editori del Grifo, Montepulciano,
1991)
* * *
Pagine oscure, refrattarie ad approcci diretti, a tratti perfino
indecifrabili, avvolte nell'itinerario di una donna attardata, inascoltata,
annunciata dal segnale di riconoscimento degli internati (due buste di
plastica gonfie di mondi e sangue) tra palude e boscaglia e che incontra,
nel suo itinerario privo di sensi immediati, gorghi melmosi che ingoiano con
tonfi sordi verruche e rami. È un viaggio notturno, un claudicante errare
nel rimosso. È il ritorno a galla, sull'orlo di una coscienza innocente,
delle immagini frammentarie di un io coltivato nella serra della esclusione,
dell'abbandono, del desiderio di morte. Un onirico viaggio infernale in
sedicesimi. E in quel viaggio ci sono apparizioni, comparse, minacce sotto
forma di una natura perversa: animali, uomini con forconi, uccisioni,
fusioni sessuali. C'è la scrittura che si affaccia, dimessa,
nell'impossibile compito di autospiegarsi, di definire e chiarire se stessa
in un processo di accumulazione insensata. C'è l'orrore dell'inspiegabilità.
C'è la morte, il dolore di devastazioni antiche e inenarrabili. C'è il buio
della propria autoanalisi.
Luigi Giordano
(prefazione al racconto "Caprimulga", in AA.VV. Diversi racconti, Edizioni
10/17, Salerno, 1977)
* * *
Gabriella Maleti, Due racconti
(Edizioni Gazebo, Firenze, 1992. pp.32)
Cosa si prova, cosa si pensa vivendo in uno stato di disperazione ovattata?
Lo stato in cui possono trovarsi molte solitudini anziane. I propri ricordi,
i luoghi familiari sono il "ruvido rifugio" di due coscienze, quelle di
Mario e di Athos, i protagonisti maschili dei due brevi racconti di Maleti,
una fotografa e scrittrice di poesie oltre che di brevi, ineguagliabili
racconti,
come questi due, appunto, in cui scava con lacerante penetrazione nelle
pieghe intime della vita familiare. La malattia, unita poi alla solitudine e
al rimorso, rende questi esseri infelici, attorniati solamente da visioni,
da voci sfilmate e dall'assenza dei propri cari. La loro ragione continua ad
interrogarsi su che cosa potevano fare per approssimare la propria morte. Ne
scaturisce amaramente o pacatamente una sola certezza, quella di non potere
fare più nulla. L'ultima amara scoperta: i propri pensieri sono il carcere,
la dannazione terrena, prima del Nulla.
Carla Collina ("Leggere donna", n. 42. gennaio-febbraio 1993)
gabriellamaleti.it
- il sito ufficiale Gabriella Maleti