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da Morta famiglia
Editori del Grifo, Iris Narrativa, 1991




La prima stesura di questo mio lavoro, che aveva come titolo I donatori, risale agli anni '81-'83. Iniziai allora la logorante usuale ricerca di un editore, ricerca che purtroppo non ebbe successo. Motivazioni solite. Formule trite, noiose.
Chiusi il manoscritto in un cassetto ma, spinta anche dagli amia, decisi di spedirlo al premio 'Tigullio-Sestri Levante" 1986, classificandomi seconda.
Nell'85, intanto, era morto mio padre. Ecco, era veramente finita. Sentii di dover ampliare il romanzo con alcune pagine dedicate a quella morte. Sentii anche la
necessità di cambiare titolo al lavoro. Pensai a Morta famiglia.
Con questo nuovo titolo, infine, spedii il romanzo al premio dei Diari di Pieve Santo Stefano, dove il lavoro venne segnalato nell'edizione del 1988.


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(a mia madre
a mio padre)



La famiglia di Chiara non era mai stata molto unita, anzi, non era stata unita per nulla.
La famiglia di Chiara era stata una cosa persa ancor prima di trovarla.
In una vecchia fotografia seppia Chiara è in piedi su una seggiola accanto a sua madre: ha un anno e mezzo e i capelli ricciuti; sua madre pare serena e non si dava pace, l'amava moltissimo e Chiara amava lei e tremava se scompariva anche per poco. Tremava proprio come ogni piccolo animale.
Il padre e la madre di Chiara litigavano spesso, e poi avevano problemi con i maiali, le vacche, i raccolti, il letame, le vanghe, le forche, le zappe, i rastrelli, le carriole, il verderame e il sussulto alle tempeste improvvise sui ciliegi.
Ogni tanto la madre arrivava con qualche fotografia presa dal mucchietto che teneva in una scatola da scarpe e mostrava certe sue sorelle e cugine. Chiara non amava quelle fotografìe: la mettevano a disagio come visi giudicanti. Una volta la madre le fece vedere anche quella di una sua amica morta giovanissima. L'amica rideva con la bocca a cuore e l'onda sulla fronte; sulla fronte della madre apparve un'ombra che le entrò negli occhi. Quando era il turno delle zie la madre chiedeva sorridendo a Chiara: questa chi è, e questa? Chiara diceva: la zia tale o la tal'altra.
La madre sorrideva, il padre non so.
A volte saltava fuori anche il santino di qualche parente morto, e bevendo caffelatte di sera quella famiglia si abbuiava, e il morto sorrideva come la maggior parte dei morti dalle fotografie, come a volte sorridevano in quella famiglia essendo già morti.
Da grande Chiara vide una fotografìa dei genitori fatta a Bologna, ma non ridevano, nemmeno sorridevano e parevano due messi lì a caso. Il viraggio seppia li faceva personaggi quasi scomparsi o forse mai esistiti. Ma era nata da loro, di mattina. Nessuno le ha mai saputo dire l'ora, il padre aveva dimenticato, le zie torcevano il capo e il naso come indignate, la madre da tanto manca.
Chiara è nata in un paese di campagna, da contadini. Le rotola dentro un sangue, quello che hanno gli animali un po' di tutte le razze, con le abitudini apprese restando immobili o facendo le loro cose insegnate da nessuno.

Nacque una mattina che il sole levando laddove dormiva crebbe la mattina finanche oltre e troppo, nel maggio ancora di violette oltreché di rose.
Nacque accanto a un fiume che ebbe modo più avanti di conoscere e prima di sentire, e prima di udire dalla madre in una storia di quando lei, la madre, giovane faceva il bagno un giorno nel fiume e vide spuntare poco più in là una biscia che si mise ad osservarla. La madre si spaventò e corse fuori dall'acqua col grumo delle vesti in mano.
Chiara capì che non c'è niente di peggiore che vedere bisce e da allora ne temette di ogni dimensione e razza.
A lei piaceva immaginare che all'atto del suo concepimento la madre vedesse il cielo, poiché dall'erba solo il cielo poteva vedere. Poi udisse il fiume e, rialzandosi, il fruscio degli alberi e Chiara ama più d'ogni altra cosa il cielo, il fiume, gli alberi.
Il padre, dopo, pareva non volesse sposare, nicchiava, per timore, per pentimento, per sopraggiunto poco amore. Tirava avanti nei giorni e nei mesi guardando basso,
sfuggendo. Lavorava scontento a segare, a vangare, a potare.
Non chiedeva ma sapeva del peso di lei più nella testa che nel ventre, e allora fu una mattina di febbraio, dopo sei mesi.
Si sposarono all'alba con la neve e un vento che pelava la faccia. Il fratello di lei, da quella che era stata la sua casa, l'accompagnò in chiesa facendole strada.
(…)

Infelice razza, quella del padre di Chiara. Infelice famiglia.
La sorella di lui (quella degli aquiloni), di nascosto, mangiava pollastri con la madre mentre gli altri erano nei campi.
Si sentiva succhiare nella stanza della vecchia, dietro al letto, accanto al camino. La stanza odorava di brodo. Erano loro che bevevano e rosicchiavano gli ossi. Pazze. Non la smettevano più. Trituravano, bevevano ungendosi il mento, la gola. Andavano d'accordo. Forse si amavano.
Chiara le sentiva salendo le scale per andare in solaio a fumare rametti porosi secchi di vite, a scrivere poesiole, a guardare i nidi grigi delle rondini proprio lì sotto al tetto.
Erano momenti di completa solitudine. Dalle finestrelle l'aria sopraggiungeva dolcissima tra i capelli, da lì s'era tanto più vicini al cielo e alle cime dei peri, dei meli, dei ciliegi. Il fosso, giù, scorreva ciarliero, ogni tanto si udivano voci lontane. Contadini che chiamavano. Ad una cert'ora della mattina si udivano le donne battere sui taglieri: poco dopo l'aria era invasa dallo splendido odore del ragù. Pareva tutto così perfetto. Così vivibile. Lontano dai dolori, dalle malattie.
Chiara stava bene fra quei sacchi di sementi, vecchi fotoromanzi, sedie rotte, indumenti usati. A volte faceva scorpacciate della farina di castagne, lì accanto, poi
si addormentava sperando che il tempo scorresse più in fretta e mostrasse finalmente una risoluzione per quel vivere incerto e mesto.
Ma anche da quel posto con valenze fantastiche e taumaturgiche veniva svegliata. La svegliava la madre o, come quel giorno, la svegliò la voce irosa del padre che stava certamente litigando con qualcuno. Allora d'un balzo s'affacciò e giù nel cortile vide il padre che con un mattone in mano minacciava la madre. Diceva che le avrebbe spaccata in testa.
E allora per la bambma, ancora lo stesso male allo stomaco, ancora uno scendere volando le scale un assistere impotente, accanto alla madre, gli occhi sbarrati come hanno certi animali alla tagliola.
Ancora la paura e sempre, quella che le toglieva le parole, che a scuola la obbligava a nascondersi nell'ultimo banco, con la mestra che, anche lei, toglieva il fiato con quegli occhi lunghi e acuminati, lunghissimi con puntine di ferro e moti e domande repentine, senza pietà, a taglio, quasi una morte per Chiara.
A volte la maestra diceva forte: "I figli dei contadini quelli, per imparare qualcosa, che lentezza!"
Chiara pensava che le maestre dovevano perdere qualcosa di essenziale della vita. Sicuramente non conoscevano tutto. Nemmeno si può immaginare quanto ignorassero. Ogni tanto alzavano gli occhi al cielo per sbuffare o indovinare il tempo. Sbuffavano riguardo a certe loro cose che ai loro occhi parevano insondabili, mentrer era minutaglia spiegabilissima. La loro stupidità era tale che quando dicevano pioverà durava un sole da bruciare la coda ai passeri. Quello poi che le fregava definitivamente erano le code delle galline molto più a ventaglio dei loro cervelli.
Quando in aula veniva chiamata con un: tu, che continuava: tu, tu, sì, vieni, sentiamo se hai studiato. Chiara usciva dal banco senza vedere, col colletto bianco di traverso e una mano nella tasca dove stringeva qualche fagiolo.
A volte aveva anche una calzetta su e una giù. La mano che stringeva i fagioli era sudata, l'altra a penzoloni, fredda.
Giungeva alla cattedra agitatissima. Con la maestra balbettava paurosamente, trangugiava aria, apriva la bocca con suoni mozzi, leggeva a fatica e allora pensava ai pesci liberi che guazzavano perlacei nel fiume. Era un disastro.

Con persone nuove la madre avvertiva che Chiara era una bambina timida e che di lì a poco certamente sarebbe scappata o si sarebbe nascosta dietro le sue gonne.
Poi diceva la bomba, è stata la bomba.
La madre la portò anche da un mago guaritore che passava da quei paesi, il quale dopo averla fatta stendere su un lettino, la guardò attentamente, le passò le mani sul
corpo e con voce potente sentenziò che la causa era certamente dovuta alla carne di maiale. Alzò un braccio, corrugò la fronte, fece dei segni nell'aria con la mano, ripiegò il capo, di colpo ripiegò anche il braccio. Per tutto il tempo gli anelli con pietre incastonate avevano brillato minacciosamente.
Dunque, era la carne di maiale che faceva balbettare Chiara e senza ombra di dubbio anche arrossire. Mai più la carne di maiale disse la madre.
Non ci furono altri discorsi.

La madre vestiva Chiara con abiti pieni di gale, di ricami, di nidi d'ape. Le metteva un fiocco nei capelli e, così vestita, la domenica mattina veniva issata dal padre sulla canna della biadetta e portata in paese. Facevano il giro della piazza a piedi. Il padre con una mano reggeva il manubrio e con l'altra teneva la mano di Chiara. Lei gli camminava accanto con le scarpette nere di vernice. Lui le comperava semi di zucca e l'Intrepido. Le chiedeva vuoi ancora qualcosa, lei diceva: Il corriere dei piccoli. I conoscenti le dicevano: come sei diventata grande. Chiara!
Lei pensava che non era da molto che aveva visto quella gente e che in quel poco tempo non poteva essere diventata molto grande e chinava la testa, stringendo la mano del padre. Quando sul sagrato appariva un chierichetto scampanellante, il padre osservava: tua madre vorrebbe che tu andassi a messa. Lei rispondeva che non ci voleva andare. Lui dicendo le tue cugine ci vanno, la portava al bar-tabacchi. Comprava le sigarette e ordinava una tazza di cioccolata per Chiara, poi spesso le ripeteva: anche a me piace la cioccolata, quand'ero militare facevo delle spanciate di latte e cacao, poi mi pentivo. E l'indomani ancora un'altra spanciata, e mi ripentivo. Sempre così.
Dopo aver girato ancora un poco tornavano e lungo la strada sentivano le campane alle spalle, lui le diceva senti è finita la messa.
Passavano i ciliegi, costeggiavano i fossi pieni di ranocchi.
Chiara si teneva al manubrio, sentiva l'aria tra i capelli, negli occhi. Ogni tanto, qualcuno li salutava. La canna della bicicletta provocava un solco sotto alle cosce di Chiara. Il padre evitava le buche. Lei lo sentiva respirare.
(…)

* * *


Quel mattino alle otto il telefono di Chiara non squillò. Strano. Il padre dormiva poco. Alle cinque, con quel cuore che batteva disordinatamente, il padre già si por-
tava in cucina. Beveva un po' di latte. La chiamava ogni giorno. Gli dava forza.
Chiara attese un poco, poi formò il numero del padre. Nessuno. Riprovò più volte. Il padre non rispondeva. Il tacito uomo non dava segno di sé.
Allora, messe poche cose in una borsa. Chiara scappò da casa. Entro un'ora l'avrebbe raggiunto.
Dentro, un presagio oscuro.
Lungo l'autostrada si trovò a chiamarlo piano, come chiamasse un piccolo animale timoroso.
Rivide il padre aggirarsi nel cortile con quei piedi gonfi e le scarpe slacciate. Lo rivide in quei suoi perenni calzoni blu di quand'era operaio, nella canottiera bianca con qualche macchia di frutta sul davanti. Ogni volta la portava insistente a vedere il vigore dei ciliegi che aveva piantato dietro casa, dei peschi, dell'alloro, delle insalate, del rosmarino. Il rosmarino prosperava nonostante il gelo dell'inverno passato. Una tortora vagava con il suo verso e lui sorrideva come tornato da un lungo viaggio e il sorriso fanciullesco gli spianava la fronte, come se un falegname amoroso glielo distendesse con i suoi arnesi.
Ma era un attimo. Tornava subito a sospirare, a tacere. S'aggirava inquieto. Niente lo placava. Così, Chiara pensava stesse contrattando con i suoi mentali, accaniti inseguitori.
Lui da una parte, estremamente assorto, a dondolare il capo in dinieghi. Chiara dall'altra, ad osservare quel vecchio e la sua fine. Il padre respirava sempre peggio. Il cuore - ammalatosi egli gravemente quando, di notte, vegliando e fumando decine di sigarette badava alle caldaie della fabbrica - andava via via finendosi.
Mi hanno rovinato le sigarette, diceva, e cadeva quasi tremando in volute di pentimento. Si toccava le gambe che, per una malattia circolatoria, gli erano divenute dure e pesanti. Controllava affranto il loro grado di durezza, si palpava e gemeva con degli ah, dei povero me! straziati e inconsolabili. Così, quando camminava, avanzava lentamente ansando e con i piedi ardenti. Mi brucia qui, lamentava, sotto la pianta dei piedi, un calore che sale, insopportabile, e mostrava a Chiara i piedi enfiati.
Tra le mani di lei quei piedi erano come una stazione dolorosa alla quale doveva fermarsi. Preso atto del povero evento, una particolare commozione l'invadeva, e incapace di movimenti, di pensieri, giungeva poi ad una rarefazione mentale, a una sorta di nebbia che si stendeva sul cervello e sugli occhi, quasi che la vista fosse troppo costretta. Chiara capì che amava suo padre.
Quei piedi ormai così poco servibili, tumefatti, così pietosamente esposti, divennero una delle tante sue eredità dolorose. Una delle più temibili per la forza evocativa.
La sua famiglia era finita, stava morendo in quei piedi. Quegli ultimi piedi.

A casa del padre era tutto sereno. La luce solatìa della giornata di giugno, a quell'ora, ammorbidiva i contorni degli alberi, passava tra i rami, tra le foglie, allungandosi, nel controluce, in raggi pulviscolari. Tutto ne era colpito e quel benessere l'avrebbe maggiormente raggiunta se non fosse stato per quel buio presagire.
Nell'orto il padre non c'era. Gli scuri erano accostati.
Chiara arrivò alle scale interne passando dall'autorimessa. Il ciclomotore del padre era lì. Papà, chiamò dalle scale. Fuori cantavano degli uccelli. Si aggrappò al corrimano e cominciò a salire. Sentì un forte odore di mele: veniva dalla cantina.
(…)

Papà, chiamò ancora. Lui taceva. Chiara continuò a salire. Gli orecchi le battevano all'interno, con colpi intensi. Poi giunse. Aprì la porta. Nella stanza che subito le si presentò lui non c'era. Chiamò ancora, sommessa, più volte. Poi entrò in sala e lo vide.
Il padre era lì, sulla sua sedia a strisce di plastica blu, freddo, il capo riverso, un braccio sul tavolo, l'altro penzoloni. Il televisore frusciava, bianco, ancora in fun-zione dalla sera precedente. Per spegnerlo Chiara si avvicinò al padre passandogli accanto. Dio, e se l'avesse ghermita? Se quella bocca aperta avesse parlato, riso?
Ma il temibile, il violento, il debole, il timido, il disadattato, l'introverso padre era morto.
Chiara sedette vicino a quelle mani potenti, a quei piedi, per lui ormai innocui: avevano finito di bruciargli.
Il padre era morto.
Non poteva che piangere accanto a quella irrigidita presenza, ultima, sconsolante.

Vagò con lo sguardo nella stanza. Tutto era in ordine. Su un mobile il ritratto della madre e accanto la Madonna dei Baldaccini, a mo' di soprammobile, con una lucina davanti perennemente accesa.
La madre sorrideva dal ritratto, i capelli neri mossi e la bocca ben curata - si vedeva - col rossetto che ne seguiva la forma. Da lì guardava Chiara e il padre. Chiara guardò il padre e lei, sperandoli finalmente pacificati.
Il corpo del padre sempre lì, riverso il capo, la bocca aperta. Dagli occhi non completamente chiusi osservava. Somigliava a sua madre. Come lei aveva occhi piccoli e un naso che nell'invecchiare era un po' ingrossato. Somigliava anche al padre. Come lui s'era massacrato dal troppo lavoro. Lavoravano e tacevano. Lavoravano e imprecavano. Truci, in famiglia. Ma truce anche sua madre che imperava.
Dei genitori, il padre diceva: non ci hanno voluto molto bene, a noi figli. La mia povera madre poi aveva delle preferenze, i più fortunati poterono studiare: uno andò a fare il daziere, un altro si impiegò in una ditta di piante, di vivai. Noi altri lavoravamo dodici ore nei campi, poi di sera a portare fuori dal Panaro barrocciate di sassi per costruire la casa. Mai un soldo.
Piegava la testa sul tavolo. Si appisolava.
Chiara guardava quei capelli fini non completamente grigi, le gambe incrociate sotto al tavolo, le ciabatte nere in similpelle, l'orologio grande "con i numeri che si vedevano", da subacqueo al polso. Guardava quella povera figura contratta, chiusa, non potendo però resistere a lungo a quella vista. Dove aveva sbagliato, quel padre? Cosa avrebbe dovuto fare, nel tempo, per non essere quel mucchio di solitudine, di incertezza?
Altre volte, più disponibile a se stesso, seguitava per molto tempo a raccontare i fatti del suo passato e, ogni tanto, quando evocava qualcosa di scherzoso, rideva illuminandosi come un ragazzo, o intristendo subito se la materia del ricordo era buia.
Chiara ascoltava con attenzione. Gli poneva domande. Parlavano nel loro dialetto emiliano. Il padre intervallava i racconti con digressioni salaci su qualche personaggio, e lo faceva con ironia e intelligenza. Era poi contento di avere dato una bella prova di spirito. Ridevano. Chiara pensava che avrebbero potuto ridere spesso. Avrebbero anche potuto vivere. Perché non avevano cominciato subito, insieme alla madre, loro tre, fino a sbellicarsi, e durare nei giorni, negli anni, ridere alle lacrime in una unione generale, spiritosa?
Ma intorno a loro crollava un silenzio improvviso. L'eco della risata li sorprendeva con i visi contratti, assenti.

Ora Chiara avrebbe dovuto chiamare il medico, i parenti, il cugino prete.
Vennero tutti.
II medico disse che il padre non aveva sofferto. Non doveva essersene nemmeno accorto. Il cuore, un attimo.
Lo adagiarono nella cassa, vestito di nuovo. Gli incrociarono le dita delle mani. Un rosario sopra. Nel taschino della giacca Chiara gli infilò un ritratto della madre, pigiandoglielo sul cuore. (…)

Il padre stava lì immoto, composto. Aveva finito di patire.
Faceva caldo, ma il caldo non gli avrebbe più tolto il respiro. Il freddo non gli avrebbe più indurito il cuore, artigliandolo al centro. Il rantolo assegnato che pareva infinito non c'era più. (…)


La madre, già molto malata, diceva a Chiara il dolore di dover lasciare lei e il padre: così fragili, incapaci di vivere.

Ma cosa vuol dire saper vivere?

 

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