Gabriella Maleti
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testi

da Parola e silenzio (anni Novanta)
Ediz. Gazebo, Firenze, 2004,




*

La scrittura è là. Tace.
Su fogli.
Guardo il nero che fuma pestilenziale
da più angoli. Ogni tanto,
con scarpe da montagna per il freddo, vado a
controllare se la mezza gallina bolle.
Vuoto. La testa prilla attorno al suo asse
in un pensiero che non ha porzioni se non
per il resto della storia. Quale? Che si scriva
per indigenza, per indulgenza e ammirazione per
la storia che ci ha portati fin qui, su un tavolo da cucina dove
qualche briciola di pane farfuglia e secca e
noi con cura similitudinale provvediamo a
spazzare via.
Eppure è lì, dove si mangia, che l'arco
viene teso per opportunità inspiegabili,
per cedevoli e - a tratti - esilaranti partenze di cuore,
mentre la restrizione della parola si allarga su
un nulla composto da varie cose, da occhiuti
ritratti di indigenti, da mobili dozzinali e
fionde medievali guardate con sorpresa.

Sono io - viene da chiedersi - quel moto che
s'aggira sulla pagina, io, con in testa il
colbacco della Elda per il gelo notturno,
insieme a quella serie di equivoci e rimaneggiamenti
che sempre compaiono quando cessa
l'attenzione al sonoro
e villi di nervetti malimpostati, supponenti
rischiano di decifrare modi, situazioni?
Sono qui per dire?
Cosa, se non apprendo?
Apprendo, se poco o niente si fa apprendimento?

Evitando i facili consensi
stiamo nel chiuso delle nostre audizioni:
valer, non vale, allora, quella tauromachia olfattiva
tra noi e la parola?
Pare di no. Perché la brace, la brossura del descritto,
esistente se non per l'intercedere della volontà,
del rigore - tra magma e doratura, tra

pèste e péste nostre -
non è congeniale alla superficialità del mondo che
ci vorrebbe indistinguibili.
Quindi sveno la mezza gallina e mangio con le mani.
Per protesta. Per anarchia.
Per lillipuziana vocazione al vorace.




*

Un giorno,
mi son vista.
Ho fatto le mie veci e mi son detta:
guardiamoci.
Ho traballato, mi son nascosta.
Sempre mi vedo,
e inopinatamente ho fretta di scappare.
Dove?
Con i miei stracci,
le mie scarpe,
una saponetta, la buffa1 in capo.
Poi mi guardo attorno:
e le sedie, le coperte,
e me, che sto nel canto?
"Dove mi lasci?", sospira l'ombra.
Allora chiudo l'uscio e
mi metto a smarangonare2 attorno ad
una seggiola che sta per crollare.
Vorrei fare il falegname,
nascere idraulico o fabbro
o bestiame.
Poi corro a scrivere.
Che sarà? Il mio strame?



1 buffa: berretto che copre gli orecchi e parte della faccia
2 marangòun (dialett. modenese): (scherzoso) falegname inesperto




*

Quello che fu ed è amore-scrittura torna amore
e resta tale.
Altro non ci sarebbe da dire,
poi per un ideale si afferma che scrittura-amore
rende ciò che vita toglie, che si morirà di scrittura,
anche se...
e via di seguito.
Parrebbe allora di svelare ad altri
la compattezza di uno scrittore (come deve essere
lo scrittore?),
e parrebbe - per una volta - di meritare riconoscimento,
invece le calze si sono rotte e
dal freezer non si è tolta a tempo l'anca di pollo.
Così, mentre la stufa gorgoglia il freddo nella
fredda sera, aggirarsi con una sciarpa
rende giustizia al tutto,
perché pare che solo in quel luogo,
ormai sgombro da speranze,
la parola venga meglio.




*

È così.
Augurabile o no, sono
rimasto bambino.
Tenue, lieve lieve.
Brutto, cupo cupo.
Bambino, ma lavorato ma
impastato di cieli e serrature
e seccature,
di motori Twin Spark
e scalinatelle. Non solo.
A volte non son pronto a parlare,
ammutolito guardo solamente
e chi mi vede pensa allo scemo.
E scema giù un sapore diffusissimo
di tara piovuta da chissà dove,
datami come contrappeso:
"Là!", avrà detto qualcuno, soddisfatto,
assestandomi un colpo alla gobba.
Da allora porto sorpresa negli occhi,
poi mi aggiusto per un contegno,
a volte è il sorriso di nessun ingombro,
ma la storia oscura di una storia,
quella d'uno come tanti - un bambino -,
come dolora e costerna.



*

E poi mi dico: "Guarda
quante belle parole che sai metter su".
Chi le vorrà?
Sono tutte in fila.
Suonano bene. Non si scontrano,
non inciampano.
Sono le mie scarpe, l'arnese del cammino.
Lucide, più le curo e più
sanno di vitello,
un animale alla catena
che rumina e s'intride di
cattura, di sorte come sorte l'ha voluta,
belle siete voi
anime delle mie dita,
dei miei piedi,
della vita che non è vita
e lo è se a voi la dedico
insieme al madornale, all'insoluto,
che nella teca battono,
vogliono qualcosa da addentare
e gozzovigliano poi col tutto,
che è niente.



*

L'ho rivista.
Dividiamo da anni il quartiere:
lei passa per tartaruga, io per
fuggitiva.
E lei, la nana, che ora sale sull'autobus.
Si tende, agguanta qualcosa della porta, alza il piede,
quasi cade dal contraccolpo,
dondola, poi torna stabile.
La mano corta paffuta d'angelo seriale s'ingegna,
quell'altra regge la borsa dai manici corti
e questa oscilla (la luce va a colpirla in barbagli acciaio)
smilza, piena di niente, forse
un fazzoletto, quattro soldi, un fischietto.
Il culo prominente è zavorra per quell'altezza,
lei manda pesanti respiri e s'impunta,
si spinge,
il piede muove l'aria (zampetta),
cerca lo scalino, poi ricade. Allora
la nana ballonzola,
tende di più braccio e busto
la vaga stellina,
poi riagguanta la porta, si sforza,
alza di nuovo la gamba
(un seno si schiaccia al mento),
il collo è tirato,
guarda alto, la testa s'impunta.
Soffia la nana dalle gote.
La sua borsa floscia è metronomo,
altalena.

Piccina,
tu così bassa, così completa,
figlia della non vanità.
E quel culo che le tira la gonnellina e
o è la coscia da maialuccio, quella polpa da bambina
gonfia che la irridono,
la fanno balocco, incanutita
piccola regina?

Ora suda,
forse trema,
pare una larga falce che
s'appigli alla sua rovina,
un fardello che si scuote,
un essere che più di prima e
sempre
s'accorge d'un sortilegio che
non è dote, né premio,
ma una scala corta, lunga,
un fervente broglio.

Allora tu che non sali,
che t'immoli
- ed è il trionfo della brevità -
fa che io cada e non mi rialzi,
io che cm 40 ho in più mi avvicinerei,
devi salire, poter partire,
una spinta...
poi una mano s'allunga dall'autobus,
le prende il braccio teso e tira,
ecco la nana in paradiso,
sorride di tutti i colori, ora, come
un tramezzino,
stringe la borsa,
si stringe all'autobus,
ci arriva: guarda dal finestrino.

 

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