Gabriella Maleti
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da Diversi racconti
Edizioni 10/17, Salerno, 1997


dalla Prefazione: "Minimi orrori, piccole atrocità"


Pagine oscure, refrattarie ad approcci diretti, a tratti perfino indecifrabili, avvolte nell'itinerario di una donna attardata, inascoltata, annunciata dal segnale di riconoscimento degli internati (due buste di plastica gonfie di mondi e sangue) tra palude e boscaglia e che incontra, nel suo itinerario privo di sensi immediati, gorghi melmosi che ingoiano con tonfi sordi verruche e rami. È un viaggio notturno, un claudicante errare nel rimosso. È il ritorno a galla, sull'orlo di una coscienza innocente, delle immagini frammentarie di un io coltivato nella serra della esclusione, dell'abbandono, del desiderio di morte. Un onirico viaggio infernale in sedicesimi. E in quel viaggio ci sono apparizioni, comparse, minacce sotto forma di una natura perversa: animali, uomini con forconi, uccisioni. C'è la scrittura che si affaccia, dimessa, nell'impossibile compito di autospiegarsi, di definire e chiarire se stessa in un processo di accumulazione insensata. C'è l'orrore dell'inspiegabilità. C'è la morte, il dolore di devastazioni antiche e inenarrabili. C'è il buio della propria autoanalisi.

Luigi Giordano



da "CAPRIMULGA"


La donna piccola e tonda avanzava al limitare del paese, là dove si espandeva una boscaglia di arbusti bassi e ramificati, che raggiungevano, nel loro propagarsi, la fustaia, all'interno della quale vigeva bassa una palude che tutto inghiottiva. Le due borse che la donna portava erano tanto gonfie da immaginare vi fosse dentro qualcosa pulsante di vita propria. Quelle borse così materialmente gravide, e così strettamente tenute. La donna pareva serena nella sua età avanzata, ma non tanto da poter decifrare allegria sul suo viso che, smunto e d'indole sospesa - anche per le aeree sopracciglia - pareva appropriarsi del cielo, o delle tenebre che fra poco sarebbero calate, perché cielo e tenebre erano per lei un sostegno. La donna udì dei risucchi, poco lontano: era la palude circoscritta da canne e steli da suburbio, dove tonfi pesanti, come orme, la face-vano pensare traversata da animali forestieri, traditi dalla superficie che, apparentemente simile a terra, li aveva attesi e imprigionati senza languore nella mota serale, scribacchiata qua e là da bagliori crepuscolari.
La donna, giunta al limite della fustaia, si fermò per ascoltare. Posando le due borse si portò una mano alla fronte, dacché un raggio ultimo luminoso, eluse certe fronde, aveva principiato a batterle sugli occhi e sulla fronte, come a benedirla. La donna vide così quanto ascoltò e ascoltò quanto vide. A pochi passi da lei respirava la palude che germinante brufoli faceva boccone di qualcosa, masticando da polle dense che via via si infrangevano in rumori laidi, ingoiando le verruche assorte di superficie. Ora la donna si scosse per un nugolo di uccelli che si levò all'improvviso e con gran rumore d'ali, allontanandosi: quel rumore la incantò, lasciandola ad osservare infantilmente lo stormo fino a quando questi non divenne un punto. "Uccelli...", mormorò la donna, con la sua voce chiara. Persi nel cielo erano sfollati, e laggiù rimase la striscia ocra di quanto, insieme alla luce, andava scomparendo. I contorni delle cose mimavano le loro ultime forme, forse tremolavano, poi si chiusero di silenzio nel silenzio attorno, così la gravita piombò sui pensieri e sugli sta- gni, sulle erbe, come un matrimonio ordinario. La donna, riscuotendosi, si avvicinò curiosa alla palude, la annusò, poi vi inabissò un piede, che subito ritrasse. Aveva voluto provare freddo e ora fece brrr. Melma e steli le ornavano la scarpa, gliela riempivano. Allora la donna rise imitando il crepuscolo avanzato, rise come una chiusura. Seduta si tolse la scarpa, estraendo un pugno di mota, tastandola tra le dita, per poi buttarla nella direzione della luce esautorata, nella palude, dove venne immediatamente inghiottita. Si sentì allora il rumore di un boccone che si immedesima nel proprio corpo e colore. Non vi furono cerchi d'acqua, vi furono molli premesse al ben profondo intestino. Diradato l'ultimo pulviscolo sospeso, cadde il nero. La donna, allora, si rialzò e, riprese le borse, si allontanò così marcia nel piede, lentamente, come l'avvio di un treno, quel treno a cui voleva da sempre somigliare. Aveva passato la notte precedente nei pressi della stazione del paese, su un binario morto, accanto ad una locomotiva rugginosa, da dove poteva sentire fischi e voci, da dove vedeva incamminarsi o passare convogli con luci fioche, come fossero ancora inizi faticosi di vita, dopo aver tanto vissuto. La donna, raggomitolata con le sue borse, a quelle luci che la rischiaravano brevemente, aveva pensato che in treno non si sarebbe ammalata, non sarebbe morta, perché il treno poteva vincere la morte, le ombre. Lei contenta come un treno, sì, se si fossero potute evitare le attese, se si fosse potuto abitare un treno e la sua orazione lunga quanto un treno, se si fosse potuto correre con il treno, ininterrottamente. Il treno va a destinazione, ma lei non sarebbe scesa, aspettando di scendere oltre, e poi oltre, e poi oltre in eterno. Avrebbe detto devo andare a..., ogni volta devo andare a, quindi ci sarebbe stato un posto anche per lei, ma lei quel posto l'avrebbe volontariamente eluso, sapendo, però che stava andando a. Un punto fermo c'era, volendo; dove va, lei? le avrebbero chiesto. Vado a..., avrebbe risposto. Senza meta? No. Un posto c'era, lei stava andando a, ma non ci sarebbe andata. Avrebbe continuato a correre, come corre il treno. (…)


Ora le parve che qualcosa la annusasse, qualcosa mandato dagli uomini per capire la sua sostanza, il suo segreto? Quale? la costanza della solitudine? Del silenzio? La capacità di una improvvida provvidenza? O la sua provvida improvvisazione? Qualcosa la annusava, sì, con larghe froge umide sul viso, sulle orecchie, qualcosa spuntato dalla palude? Sorto dall'erba? La donna sentì un respiro sulle sue palpebre chiuse, qualcosa di greve, di mai sperimentato. Un cane, un grosso cane, forse, ma non si udiva pesticciare, ne l'erba era preda di movimenti, di alcun movimento. La donna emise allora un suono debole, vibrante eppure privo di corporeità, un avvertimento al cane, forse, che proveniva dalle sue viscere come millenni lontano, un suono di corno, di neutra teatralità e territorialità, lontano dalla tetraggine, dal dolore. Nella notte un suono privo di timori, di presentimenti. Un suono e basta. La donna aumentò il tono e riprese il verso, senza alcuna modulazione, un segno nettissimo vocale, una "u" portata all'infinito. Alla fine la donna tornò ad essere sola, il cane che l'aveva annusata era scomparso. Poteva essere stato un sogno, una sensazione. La palude dormiva in cecità i suoi mille aghi molli, e la notte era aperta agli intenti più mistici o depravati, o solamente era portavoce dell'immenso caos del tempo, che nel buio si contraddiceva minuzia dopo minuzia, fino ai suoi più grandi imbrogli, alle questioni irrisolte, alle immense controversie, alle asserzioni di inabilità, giungendo così ad assolversi, e la donna era ormai fuori dai tormenti della notte, dall'immane chiacchiera che ogni arto
intraprende con il vicino arto, con la mente. Posata a terra come un infante la donna sospirò addosso a quella eterna macchina fotografica che tutto aveva registrato e che le occupava la mente. Bagliori di luce all'interno degli occhi, erbe come piccoli pugnali, voci, suoni, anime diurne del suo vagabondare la riempivano, poi campane... Allora, su una delle sue indefinite strade, preda di un ricordo a forma di sottana che fugge, fuggiva anche lei con le borse dondolanti e con un cupo tenerissimo dolore nel capo. (…)


La donna entrò in paese. Un bottegaio grasso, cinto d'un grembiule grigio e unto, la vide. Lei lasciò le borse e salutò con le mani. Con le mani fece dei cenni di saluto. Il bottegaio non rispose. La osservò. Riprese le borse la donna avanzò dondolante. Il bottegaio la guardò e riguardò. Aggrottò la fronte e strinse gli occhi - grate - che osservavano. La donna, poste ancora una volta le borse a terra, riprese a salutare con ampi gesti. Rise, poi, gioiosamente, mentre scriveva un biglietto che poi, in un gesto leggero, mandò, facendolo volare in direzione del bottegaio. Il bottegaio si insospettì. Poi si abbuiò. Un grosso cane nero era intanto apparso accanto alle gambe storte del bottegaio. Il muso all'altezza di quella pancia unta. L'uomo non potè osservare il biglietto che cadeva perché stava ad osservare il cane. Alla fine gli dette un colpetto d'incoraggiamento nella pancia. Fu un momento: il cane mostrando i denti si precipitò ruggendo contro la donna, e la donna venne rovesciata dal cane che l'azzannò alla gola. Il bottegaio stava a guardare. Si udivano già però voci alte e concitate. Il bottegaio disse: "Non m'ascolta". La donna a terra agitava le mani, le usava per difendersi, con occhi atterriti disse forte qualcosa, gridò forse un nome, poi udì molto rumore, sentì una calca di gente urlante attorno, vide braccia tese e delle mani protese, ma il cane non le lasciava il collo. Sentì ancora urlare, e poi fare quello che doveva essere il nome del bottegaio, la gente lo chiamava, guardava lui e la sua bottega. Il bottegaio allora sparì e ricomparve con un'arma, si fece largo tra la gente, scaricando l'intero caricatore addosso al cane. L'animale cadde senza un rantolo sulla donna che teneva aperte le mani sul viso, cosparse di rivoletti di sangue. Due larghe foglie. Estremità da cui più non guardare. Fessure.

 

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