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Gabriella Maleti e altri autori, Il fotografo
I Quaderni di gazebo, Firenze, 1994



Il fotografo

Alles verganglichcs ist nur ein Gleichmis
Tutto ciò che passa non è che immagine

J. W. Goethe



Il fotografo, da un rilievo del terreno di nobile altezza, vide nella piana la casa diroccata e decise di raggiungerla per fotografarla, poiché una casa diroccata era per lui motivo di grande interesse. Da un'avanguardia di olivi giovani e da una retrovia di cespugli disordinati che non identificò, il fotografo s'incamminò decisamente. Gli olivi ispiravano quella positività che i cespugli negavano, così disordinati, anonimi, traversati i più da un'erba infestante che malignamente si celava, ora, dietro al verde vivo delle sue foglie, ma che in inverno avrebbe mostrato apertamente i suoi tentacoli secchi, in tutto il suo manifesto reticolato, raggrinzito come le dita della morte, presa ferrea. Una rete cospirante altra rete, sopra al respiro basso degli arbusti, oltre i rami, più su, fino alle cime - a volte - di alberi d'alto fusto, così che in ogni controluce invernale, la vitalba carnale avrebbe mostrato la membrana reticolata dei propri intestini avviluppanti, soffocanti, mutati con il freddo in ramaglia secca munita della crisalide dei suoi frutti larghi e tondi, simili ad un colino invernale, ad una stasi moritura ma inflessibile, ma presente. Quasi immortale. Il fotografo evitò i cespugli coperti dall'infestante (e se quella l'avesse ghermito, immobilizzato con i suoi tentacoli, ne avesse fatto un involto, lì, in quella tarda primavera?) e tenendo strette al petto le due macchine fotografiche che gli pendevano dal collo, continuò a percorrere la scorciatoia che lo avrebbe portato al piano, alla casa diroccata. Sempre s'aggrappava alle sue macchine fotografiche che teneva presso di sé come un libro aperto.
A qualcuno che gli aveva chiesto delle sue macchine fotografiche, lui disse: "Sempre m'aggrappo alle mie macchine, le tengo presso di me, sulla mia spalla, attorno al mio collo come un libro aperto, un libro da svolgere che però ho già svolto e di cui conosco per intero il contenuto. Le mie macchine sono consunte agli angoli, vede?, e sul dorso, hanno lavorato moltissimo, tuttavia non mi stanco di svolgere lo stesso libro che si ripropone da anni e in centinaia di fotogrammi, e le mie macchine sono gli esperti muli di quel libro, sono muli che girano ruote e ruote attorno a pozzi conosciuti, sconosciuti, attorno alle imponenti verità e anche a quelle vacue come le ripetizioni, le rivisitazioni. A volte non so più come girare la macchina fotografica, in verticale? in orizzontale? Sono un rivisitatore, prendo l'anima immacolata del mio mulo e la punto. Scatto. Rivisito. Rifotografo la stessa immagine per anni, ripeto lo scatto, sono un ripetitore. Ogni cosa, del resto, è ripetibile e ripetuta. Le mie macchine mi ubbidiscono e ripetono. Mangiano fotogramma dopo fotogramma. Alcune volte è la macchina che mi dice di scattare, io so perfettamente che è qualcosa di ripetuto, ma lo stesso pigio il pulsante di scatto. Ora l'albero sarà leggermente più a sinistra, prima era leggermente più a destra, ora quel viso occuperà i tre quarti del fotogramma, prima ne occupava due. Ma è lo stesso viso. È lo stesso albero. È la mente che crede il contrario, ma quel viso era là, è sempre stato là, io credo di scoprirlo ma non è che una ripetizione, la volontà di eludere l'immobilismo, anche se tutto è immobile. Vede - disse il fotografo a chi gli aveva chiesto delle sue macchine fotografiche - io scatto fotografie per rivisitare il ripetuto e per non morire. La ripetizione è morte e non è morte. Se non ripetessi morirei d'inedia, quando ripeto è come una morte. Una morte fotografica. Una rinascita fotografica. Quale superfìcie più sorprendente del fotogramma? Il fotogramma fa il fotogramma e registra. Io scatto siedo e aspetto. Il fotogramma - disse il fotografo a chi aveva chiesto delle sue macchine fotografiche - è la mistura più sorprendente d'ogni sorprendente mistura. È la visualizzazione del detto, del vociferato. Si sente dire, spesso, che il tale è solo, o è zoppo. Che dopo la morte della moglie o della madre è diventato solo, e anche - a volte - zoppo. Lei - disse il fotografo a chi gli aveva chiesto delle sue macchine fotografiche - avrebbe avuto davanti agli occhi la reale entità di quella solitudine? Lei avrebbe sentito vociferare che quell'uomo era solo e zoppo, le sarebbe rimasta negli orecchi una frase e basta; il fotogramma invece le può rivelare come quell'uomo è solo come quell'uomo è zoppo. Lei avrà negli occhi, e non solo nelle orecchie, come quell'uomo è solo e zoppo. Il fotogramma ha un potere decisivo, estremamente più grande di ogni potere. Lei non immagina nemmeno - disse il fotografo all'uomo che gli aveva chiesto delle sue macchine fotografiche - quanto il fotogramma può scoprire e rivelare. Noi, in verità, siamo vittime dei fotogrammi. Se un fotogramma non è stato impressionato con una certa moralità d'intenti, noi possiamo essere rovinati da un fotogramma. Nella nostra solitudine, zoppi, spiati dai fotogrammi e possessori di fotogrammi, noi possiamo essere rovinati dai fotogrammi. Siamo letteralmente in balìa di un fotogramma. Noi che ripetiamo fotogrammi su fotogrammi, che siamo, in fondo, dei ripetitori, siamo, nel migliore dei casi, prigionieri di un fotogramma e, nel peggiore, possiamo venire uccisi da un fotogramma. Davanti a un fotogramma splendido noi siamo inermi. Il fotogramma splendido ci uccide. Lo guardiamo e lo riguardiamo. Inebriati. Vogliamo vedere e non lo vogliamo più vedere. Ci sentiamo invasi. Sono colpi terribili, nefandi. Siamo inermi davanti a un fotogramma. Sopraffatti. Eppure caracolliamo con le macchine fotografiche al petto per tentare di creare fotogrammi splendidi, disumani. Caracollo in ogni stagione, voglio rivedere il rivisto, ripetere il ripetibile, ben sapendo che tutto è una noia terribile. Vorrei impipparmene d'ogni possibilità di ripetizione, d'ogni molla ripetitiva, perché tutto è estremamente noioso, vorrei impipparmene d'ogni obiettivo, d'ogni corpo macchina, di ogni fotogramma perché tutto è stato ripetuto alla nausea, ma è impossibile, ed eccomi alla ricerca di case diroccate, di case derelitte - disse il fotografo -, eccomi sulle tracce di una torre medievale, eccomi a fiutare il Romanico, gli archetti ciechi o le absidi in ombra di una chiesa, essa, nella solitudine spacciata del proprio portale strombato".
Il fotografo, messosi di tre quarti, percorreva il quasi ripido dislivello che s'univa al piano e in breve fu in vista della casa diroccata. Da su, prima, s'era già visto lo squarcio di una parte di tetto sfondato, i muri estemi quasi sorgenti da nugoli di ortiche tutt'attorno, e la porta d'ingresso semiaperta. Ora, l'alta porta con borchie arrugginite e tavole di legno corrose, sbiadite dal tempo, era a un passo. Il fotografo, ansante, si fermò. Guardò attentamente la casa, la esaminò a lungo. Proveniva dalla fessura della porta semiaperta un torpore freddo, una lingua d'umido da seminterrato, poco rassicurante, predisposta alle estreme conseguenze
da un buio chiesastico, ma laico per finestre coloniche anche se chiuse su un giardino dismesso. Sulla soglia avrebbe potuto apparire qualsiasi cosa, qualsiasi simulacro primordiale, da una vecchia in cenere ad un enorme occhio venato di rosso, da un ruminante incollerito ad un contadino sospettoso, da una ruvida efferata matrigna ad un altro gigantesco occhio labirintico e dolente nei suoi condotti. L'umido usciva lento ma continuo, come il flusso di una gola oscura ormai raggelata, ormai penitente in quella vocazione d'alito senza più zone di suono, di gargarismi, di raschiori. Solo un alito gonfio di fatti muti ma esperiti, di immagini e relazioni passate ma a forma d'alito, tradizionalmente cattivo, arroccato come un borgo alla sua gola, come un borgo e le sue dita, dai tanti sapori passati, dai cibi che come fragili continenti gravitano ancora in quella gola, con gli odori che si becchettano senza indulgenza. Indulgenza per gli odori ed i sapori passati. Indulgenza per le gole d'alito passato. Vieto. Fumi d'alito umido. Oscurità dall'intestino rutilante nel buio, umido che si fa strada, che si fa odore. Polpa.
Il fotografo, con qualche timore, osservò lo spigolo d'ombra irto che la porta semiaperta produceva e con passi cauti ma decisi s'infilò nella casa, inoltrandosi all'interno di essa. Subito un freddo lo colse, ma pensò di proseguire, di lasciare quel pianterreno in penombra ricco di botti sfasciate, per salire al primo piano dove
certamente ci sarebbero stati più luce e tepore. Ah, le vecchie scale di sasso, pensò il fotografo, i vecchi muri di pietra! Dov'era quella sua zia ficcanaso? Dov'era quel suo culone su gambe estremamente corte, quella masserizia tradizionale che le occupava il cervello? Il fotografo s'aggrappò all'obiettivo 50 mm montato sulla macchina fotografica e lo strinse nella mano sinistra. Con quella forza nella mano saliva e udì all'improvviso uno schiocco, un rumore secco alle sue spalle provenire dal pianterreno, che lo immobilizzò. Spaventato scese velocemente la prima rampa di scale e vide che la porta d'ingresso s'era chiusa. Un colpo di vento. Un sibilo. (…)


(…) L'uomo, sperduto, si staccò dalla grata lasciando a terra macchine e borsa, con una mano al cuore si immobilizzò accanto al letto, fissando senza vedere il pavimento di cotto, in più punti con fenditure, con buchi, rosicchiamenti, qualcosa di mortalmente mattone e rosso e - si vedeva - passato con cera rossa. Un pavimento da capogiro, e in preda a un capogiro il fotografo s'appoggiò alla sponda del letto, al raso giallo che si sarebbe sminuzzato in più punti tra le mani, róso, cadaverico, come rosa che si polverizza. I due cuscini parevano conservare l'impronta del capo, e le federe ricamate erano ormai color senape con piccole zone bianche. Gli abitanti erano forse fuggiti? Di notte? Perché ancora lì quella coperta di raso? I comodini all'interno della loro pancia contenevano pitali di smalto bordati di blu, e dentro a questi v'erano pezzuole brune con frange ed un tubetto rinsecchito di una qualche crema. Crema per le emorroidi o vaselina. Forse. In uno degli angoli, proprio sotto al tetto squarciato, si poteva vedere una specchiera frusta e stinta, con l'impiallicciatura sollevata, da quanto l'acqua piovana l'aveva inondata, calandosi con ogni tipo di intemperie su quello specchio, dove ormai era inutile tentare di vedere chiaro. Tutt'attorno alla specchiera il cotto era preda di una muschiosità verde che si estendeva per tentacoli in taluna periferia. Quell'angolo era perennemente in ombra, umido, viscido. Era evitato anche dai topi che ne avevano fatto una loro personale zona orrida, piena di leggende. Il fotografo, riempitesi le mani di santini e fotografie, si lasciò cadere accanto ad uno scendiletto con una feroce tigre del bengala, rossa, attorniata da palmette evanescenti, stinte, dove si poteva immaginare i topi avessero zampettato come dirigibili. Grigi. Un crepitìo seguito velocemente da un botto provenienti da fuori fecero balzare in piedi il fotografo, il quale corse alla finestra e dall'inferriata vide un uomo che con il fucile in mano stava passando laggiù tra gli alberi radi. fotografo allora chiamò a squarciagola, ma il cacciatore proseguì il cammino tenendo al collo qualcosa forse selvaggina. Il fotografo strinse tra le dita l'inferriata, tentò di scuoterla. Chiamò aiuto, si sgolò agitandosi nella luce. Infilò anche le braccia nell'inferriata, le sporse le fece andare come mulini a vento, ma niente accadde, mentre la sua voce si perdeva; si esauriva, tranne il pianto che colse l'uomo mandandolo a risedersi a terra con attorno le fotografie in bianco e nero. Visi gialli e visi tirati, bambini attoniti, vecchi in vecchi androni, sotto a vecchi portici, poi donne e uomini di mezza età, abiti scuri, abiti con colletti bianchi, colli pesanti di uomini tozzi, bambini addosso a vecchi sdentati, addosso a parenti grassi, magri, bambino sul
letto con coperta di raso, coperta di raso percorsa dalle braccia tese e dalle mani unite di due coniugi, bambino addosso alla madre semistesa sulla coperta gialla di raso. Addosso. Riccioli. Vaghezze. Timori. Visi lontani. Mani grosse attorno ai corpi dei bambini, sulle spalle degli adulti, mani sulla fronte a ripararsi dalla luce, mani lasciate cadere ai fianchi, mani inutili nella fotografia, imbarazzate, mani pesanti, mani-arnesi, occhi ombrosi, bocche taciturne, denti mancanti, e alle spalle fienili, stalle, attrezzi, buoi, finimenti per cavalli, cavalli da tiro, da terra, infaticabili, inesistenti i cavallerizzi e le cavallerizze. Il fotografo guardò a lungo quelle fotografie, fece scorrere le dita sulla superficie quasi a voler cancellare le macchie di muffa, a voler far riaffiorare certi visi scomparsi, a raddrizzare le pieghe che facevano d'ogni fotografia una fotografia concava, derelitta, paurosa e immortale. L'uomo, sospirando e alzandosi come una fotografia concava, nella luce prese a fotografare tutto quanto vi era nella stanza, rifotografando anche quelle immagini, riesumandole una ad una. Fotografò un particolare della coperta di raso, il letto, la tigre feroce del bengala, gli affreschi rimasti, la specchiera. Allo specchio dovette fugacemente specchiarsi e tra le miriadi rugginose dei puntini si vide scomposta ombra, ora obliqua, ora spezzata, come se lo specchio fosse divenuto onda e non rispecchiasse che onde. Vide un suo occhio che deformato velocemente si distolse mostrando barlumi di insania. Sdraiatosi poi a terra fece macrofotografie del pavimento muschioso, d'ogni benché minima rifrazione di luce che cambiava l'aspetto, la sostanza, la consistenza del muschio scivoloso, quasi pulsante. Il fotografo mosse all'infinito le mani, come gli era familiare, scattò immagini da ogni angolazione, con ogni focale posseduta. Le sue mani davano immenso potere a quell'occhio centrale che immenso potere aveva già. Scattare fotografie da quella prigione voleva dire sopravvivere. Catturato egli da una casa, egli la catturava, la costringeva in un corpo metallico, intelligente, arricchito da una intelligente lunga materia assorbente. Ma quanto avrebbe resistito il fotografo? Dunque, ogni cosa fu fotografata. L'uomo, nel momento preciso in cui s'accorse che il lavoro era finito e niente poteva più impegnarlo, distrarlo, si gettò fuori con macchine e borsa dalla stanza affrescata, scendendo di filato le scale nel quasi buio e arrivato al pianterreno si scaraventò con tutta la forza contro la maledetta porta, tentando ancora di aprirla. Questa si mosse, parve contrarsi, malignamente, ma non s'aprì nemmeno durante gli altri tentativi dell'uomo che urlando improperi e bestemmie continuò nell'assalto. Fosse passato qualcuno. Il fotografo invocò aiuto, disse non c'è nessuno lì fuori? per dieci, venti volte, poi sfinito risalì la scala fino al primo piano. Controllò a tentoni ancora le varie stanze chiuse, entrò nella cucina. Qui inciampò in uno straccio, in una bambolina che dalla pancia mandò il proprio verso raggelante. Udì fruscii agitati. Rumori d'unghiette che nella fuga grattano il pavimento. Topi. Il fotografo, topo nella grande trappola, scappò anch'egli e risalì al secondo piano, tornò nella stanza affrescata andando a respirare una boccata d'aria all'inferriata. Era chiuso inevitabilmente nella casa. L'unica via era rappresentata da quello squarcio nel tetto. Salire sul tetto. Come? Non v'erano scale. Avesse potuto issarsi fin lassù per buttarsi da quel secondo piano. Ma come salire? Il comodino sul letto e lui sul comodino sarebbero stati insufficienti. Non v'era nemmeno una corda da attaccare alle travi. Nemmeno in cucina l'aveva vista. Impensabile poi riuscire a portare una botte dal pian terreno al secondo piano per issarla sul letto. Fosse riuscito a salire sul tetto avrebbe fatto un volo. Un bel volo. Il volo della fine, forse. L'uomo si disperò, ansimò. Guardò nella campagna e vide un individuo, poco lontano, che sistemava un treppiede e su questo issava una camera. Il fotografo lo riconobbe, urlò: "Ansel!, Ansel Adams!", ma Ansel non lo senti, avvicinò piuttosto il viso alla camera. Il fotografo lo richiamò, dannandosi all'inferriata. Poi, vide più in là un secondo individuo anch'egli intento con treppiede e camera. Il fotografo lo riconobbe e lo chiamò: "Paul!, Paul Strand, sono qui!", ma Paul non lo sentì e continuò nel suo lavoro. Il fotografo chiamò e richiamò, mise le mani fuori dall'inferriata e le agitò urlando. Poi, piangendo come un bambino, si buttò a sedere sul pavimento, nella grandissima disperazione, il cielo dal tetto squarciato sopra di lui. Avesse alzato gli occhi avrebbe visto il cielo. Ma gli occhi erano chiusi e pieni di lacrime e rossi dal pianto. E il cielo lo vide poco dopo, quando inconsolabilmente affranto si sdraiò senza più forze, e da lì riaprendo gli occhi osservò il cammino delle nuvole. Con un filo di voce disse: "Non sarò che un'immagine, qui, in questa camera, questa camera è un'immagine, io e la camera un'immagine sola. Se nessuno mi salverà diventerò una fotografia insieme a questo scendiletto, a questo letto, a questa specchiera. Diventerò topo, un topo da camera, una fotografia con topo". A braccia larghe e ad occhi chiusi, il fotografo non s'accorse che il tempo stava cambiando e già nuvole nere andavano coprendo la luce vivissima della giornata. "Eppure, una fotografia non è uguale all'altra!", aveva detto il fotografo al passeg- giatore, "qui sta la meraviglia, quella che sconfigge la noia, anche se la noia resta perché ci si adatta anche al pensiero che ogni fotografia è diversa dall'altra, ci si adatta anche al pensiero che in fotografia non si potrà mai essere sicuri dell'esito finale, che avremo bisogno di avere nelle mani la fotografia per sapere cosa abbiamo fotografato, ci si adatta a tutto, siamo adattanti e adattatori, non ci sarà pensiero nuovo che rimanga tale, non farà a tempo ad arrivare un pensiero nuovo che già ci saremo adattati al pensiero nuovo e il pensiero nuovo non sarà che un pensiero vecchio. Lei, essendo un passeggiatore, dovrebbe capire - disse il fotografo al passeggiatore -. (…)


(…) Il fotografo aprì gli occhi per via di un vento freddo sul viso e s'accorse del cielo scuro, rabbrividendo si rialzò andando a sedersi contro una parete. Capitò con una mano su un mucchietto di sterco di topo e sussultò. Ora folate di vento gelido facevano volare i santini e le fotografie, disperdendoli nella stanza, così una gran quantità di visi lo osservava da ogni cantone. L'acqua cominciò a scendere dapprima lentamente, poi più battente, e la specchiera s'inondò all'istante, facendo fluire da sé interi rivoli, come un sermone affogante. Si vedevano solo onde gialle allo specchio, un correre obliquo e il rumore secco della pioggia, dei suoi fasci rovinosi, dei tiranti verticali, della sua rotondità imprendibile che come torre fluiva dallo squarcio. Il fotografo si mise le mani sulla testa e tentando di ripararsi riprese a piangere dolorosamente, come una specchiera. Poca differenza c'era tra lui e quello specchio: invaso il suo viso come quella superficie, tremebondo di quegli assensi col capo a cui i singhiozzi lo portavano. Poi la pioggia si placò. Non vi furono che gocciolii. A lungo gocce caddero, per un momento del loro percorso splendenti quando i raggi risorti le illuminavano. Cadevano nella zona muschiosa illuminando quel verde, rendendolo più scivoloso e palpitante come un grosso rospo, come cratura mimetizzata, un enigma, una leggenda contadina. Il fotografo pensò per un momento di fotografare quelle gocce lucenti, poi vi rinunciò. Cominciò a vedere nella stanza molti fotografi del passato, li vide muoversi, fotografare. Vide le pareti della stanza piene delle loro fotografie, le fotografie dei Maestri, s'accorse d'avere la stanza zeppa di macchine fotografiche d'ogni tipo e di ogni epoca. Di lastre, pellicole, di obiettivi. Chiamò allora i fotografi, sorrise loro stringendogli le mani, ad Ansel Adams disse: "L'avevo scambiata in un primo tempo per mia madre, maestro, poi non poteva essere che lei", strinse le mani di Weston mentre lacrime continuavano a scendergli dal viso, poi iniziò a mimare l'atto del fotografare. Ai Maestri disse: "Fotografiamo qui, insieme, è stata per me un'occasione eccezionale poter vedere voi, qui, riuniti, ma fotografiamo questa campagna, questo letto corroso, questa specchiera, e ben due pitali. Maestri, possediamo ben due pitali, laggiù poi, dove di giorno è sempre ombra, in quell'angolo, vi è persino uno stagno, prima è comparso un rospo, ora sarà la volta di qualche rana... fotografiamo... questo è il luogo ideale, qui c'è tutto quanto serve per fare fotografie, caro Stieglitz - disse il fotografo -, vede quella specchiera? Da una certa angolazione vi si può vedere riflesso l'angolo destro del letto, se ci spostiamo leggermente potremo vedervi sopra due individui che dal letto si specchiano i piedi... una combinazione eccelsa se pensa che con uno sforzo potremo specchiarci anche noi, ma attento alla tigre, Maestro, attento alle palmette voraci, questa stanza è l'archetipo della vita, qui si possono scattare fotografie dell'inizio e della fine della vita, l'inizio di tutto e la fine, e vi sarà sempre un'immagine a testimonianza, tutto è immagine, ah, Maestri, che combinazione trovarci qui all'inizio e alla fine della vita, tra un letto matrimoniale e una specchiera fradicia ma, cara Cameron, cara Arbus, cara Lange, che posso pensare ora che vi vedo, nell'articolazione del presente, fotograferemo fino a che le mani non saranno sfinite, fino a quando tutto questo buio, questo buio...".

 

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