Gabriella Maleti
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testi

da Fotografìa (1987-1988)
Ediz. Gazebo, Firenze, 1999


Nota dell'autrice


Licenzio questo libro dopo più di dieci anni dalla sua stesura. Lo faccio volentieri: credo di avere trasfuso in queste pagine, scritte sotto l'impulso di un grande libro di Pessoa, il succo forse più significante della mia lunga e affaticata esperienza di vita e di scrittura (scrittura scritta, fotografata).

Perché dopo dieci anni? Perché ritengo non si debba avere soverchia fretta. La scrittura dovrebbe tentare di vincere la frenesia autoconsumàntesi, la consumazione di tutto, del Tutto. Semplicemente credo si scriva per contrastare (e insieme imparare a sopportare) la nostra caducità, per sconfiggere la vanità e l'efficientismo che da ogni parte tendono reti.

G.M.


N. B. Le citazioni che compaiono in alto, prima di ogni poesia, sono tratte da Il libro dell'inquietudine di Fernando Pessoa (Feltrinelli, Milano, 1986; traduzione di Maria Josè De Lancastre e Antonio Tabucchi).


* *


"Sono tutte queste apprendiste che parlano presso il loro atelier'



Ah, l'apprendista. L'ottima apprendista stanziale,
satura, dibattuta.
Camminava celere imbevuta di smacchiatori, di
vertiginosi ammanchi. Ah, l'imbarazzo di esserci,
di vederla. L'imbarazzo della scena.
A volte l'apprendista era gaia, ribelle, faceta.
Ascoltava con l'uzzolo della mezza mattina,
dopo essere sgattaiolata via da quella mezza
famiglia di custodi potenti, di educatori, di cippi.
Corri corri, ramazza,
apprendista torchiata, sillabante, prodigiosa
reinetta con canestrino e Peer di contrabbando.
Mi voltavo un'ultima volta per vedere mammà
nel riquadro della finestra, nel riquadro sapido
incantato dalle stille (sue) ossia suoi
fervidi scivolati umori.
Parlare con l'apprendista ad un ceduo chiarore, tra
apprendiste dire ciò che, da diporto e non, vagava nelle
teste e che si intendeva irrealizzabile,
per questo soffocato a volte in un riso via via
sempre più storpio.
Così l'afrore promiscuo del fine giornata
chiudeva un avvento, poi un vago ritorno.


* *


"Miei giorni di bambino, anche voi con il grembiule addosso! "



Ciò che volevo non l'ho fatto. Ciò che vorrei non lo farò.
Di quale età "festiva" farne carico?
Ruzzolavo nel vestituccio dei miei avi bambini, bambino
ripido e sarchiato, riverente, talvolta a testa in giù
nell'acquitrino finemente abitato: insettucci in superfìcie,
e giù: saette, mutevolezza di codine a dirigere il percorso,
la passione vitale, nel mosto grigio, il loro gaio affare.
Cuori di animali tesi e fuggiaschi. Mio cuore in loro.
A poco a poco, cuori in spirito, fondanti su gagliarde zampe.
La solenne scrofa tossiva divorando i pennuti coco-stramazzati.
Farò. Farò. Anch'io farò, pensavo, con questo cuore da sterno
animale. Ma: viso glabro e insolita permanenza nel vocativo.
Oh, oh, lumini e saette, questa è la mia parte?
Scodinzolando nelle giacchette approssimate oh, dunque io,
tutta qui la nascita, mater dolorosa?
Sarchierò, vangherò, difenderò - pensavo - messa precocemente
a guardia di memorabili quasi decessi, di probabili eccessi,
di tutto ciò che si deteriorava, intristiva le mie zampette
di bambino.
Ma di quale infanzia sto parlando?


* *



"Io vegeto tra veglie "



L'incomparabile struttura del sonno. Presto, presto!
Adagiati ma laboriosamente destituiti da noi.
Dagli opposti noi. (Nessuna convenzione, pare,
ci sia tra quello che siamo stati e ciò che siamo).
Fulmineamente riapprendo ciò che, voluto abissale,
era comparato al niente. Mai accaduto mai visto.
Ma il cine dei miei quarantacinque anni mi informa.
Povera testa a scatola, povera molle posizione
a cui ti affidi.
Non dubito d'aver partecipato alla mia vita,
ma lo scacco (in nuce) ripreso, ripropostomi,
filato in scia dall'eterno gasteropode in gorgo
di sonno, mi smarrisce di giorno e
mi assopisco nella cineteca, nel barbaglio e
debito che pare io abbia
con l'insorto trust.



* *

"Cosi sono stato uguale agli altri senza somigliare a loro. Fratello di tutti senza appartenere alla famiglia"



A volte torna quel latrato instabile, solitario,
quella figura eterodossa sui cigli
come un volere e un non capire che ballonzola
come vuole questa mia selva innocua di ritiri
e l'endogeno appartenere a chi, a cosa (mi domando)
se la famiglia voluta, inutilmente inseguita
inizia nella mia stramba specie,
nel fervore della mia capa?
Ecco il tramortito bene
che conservo, palpo nel probabile pomeriggio,
tra anse e insiemistica del tutto,
del naturale rovo poi caro
poi mortella che presiede
quel mio reticolato.


* *



"Il coperchio, per l'amor del cielo, il coperchio!"



Resti pure lì, nella malevola geografia mentale,
nel buio da pentola, il paradosso della
elaborata materia: il Tutto, proprio e improprio,
che mi riguarda, che mi consegna al balengo
(si suppone) equilibrio dei quadrimotori,
un giorno qualsiasi, ferino.
Tu che m'assisti, e m'invalidi: genoma,
induzione meccanica, cortese, pragmatica.
Assisto a mie laconiche moratorie, a digiuni
obbligati: guerra ai datteri.
Ma quale sia la mia provvisoria dicitura da vivente, es.:
zuccherina, qui giace, seguita (s'immagina) dalla colossale pace,
niente mi abitua a me
e resti tutto, ma come un sopruso,
per l'amor del cielo, coperto.


* *



"Non sbarchiamo mai da noi stessi "



Me ne sto con la mia scrittura
negli abissi del già purgato.
Sto come l'inerme s'avventura
e sé percorre e s'agitano senno
e conoscenza.
La misura è nella resa dell'analizzato,
a ciò che sono
e oltre non sporgo che un capo renitente,
un infinito esaminato,
compromesso chissà per quale guglia,
per che profondo dettato,
sostanzialmente un infinito penitente.
 

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